Aleksander Savi - A modo mio
Prima parte
A MODO MIO
VIVO
1
Sono irrequieto quando rientro in Italia. Se tutto fosse stato diverso probabilmente amerei questo paese che non sento mio.
Mi chiamo Aleksander Savi, ma di Italiano ho solo il cognome.
Non do molta importanza ai soldi. Sembra strano detto da uno che sta guidando una Range Rover Evoque rossa con il tettuccio bianco, ma è così. Se sono in questo paese è per i miei genitori, per la villa che mi hanno lasciato a Cernobbio.
Siete mai stati a Como? No, bene, non vi perdete niente tranne un panorama sul lago e chiassose feste di beneficenza organizzate da mia zia Flora. Eleganti raccolte di fondi - le definisce lei - dove uomini ricchi e facoltosi possono far sfilare le loro mogli, donne, amanti, dipende.
Trovo banali queste serate e poco produttive. Se mia zia dovesse fare affidamento e portare avanti la sua associazione con quello che raccoglie… be’ avrebbe già chiuso i battenti. Però devo ammetterlo: si impegna, tanto quanto cerca di scoprire cosa faccio nella vita, dove vado, chi frequento, chi ascolto e chi ignoro.
No, quest’ultimo dovrebbe saperlo.
Non mi aspetto molto dalla mia esistenza. Posso sembrare cinico? Forse perché lo sono e se non bastasse aggiungerei scontroso, pragmatico e… cosa? Narcisista? Io? Andiamo…
Non fingo di non sapere l’effetto che ho sulle donne ammirandomi allo specchio. Ne sono consapevole e ci gioco, quando voglio naturalmente e sempre se ne vale la pena.
Ho i miei svaghi: vado a caccia, ma è ancora troppo presto per parlare di cosa. Diciamo solo che l’argomento femminile c’entra ben poco.
Volete davvero che vi parli delle donne della mia vita? Va bene. Punto primo: non ci sono donne nella mia vita.
Non sono il genere di persona che aspira a una relazione. Non sono il genere di persona che una madre aspirerebbe accanto alla propria figlia.
Se non per il mio portafoglio.
È per questo che, ripeto, non do importanza ai soldi. Davanti a quelli le persone cambiano. Sono ricco, okay, negarlo sarebbe da ipocriti. Ma credetemi quando vi dico che darei tutto quello che ho per essere solo Aleksander e gettare il mio cognome all’inferno.
A proposito, è da lì che vi sto parlando.
«Ehi sei atterrato?»
Da mezz’ora, sono quasi a Como e non so perché ho uno strano presentimento.
«Nicolas, mi stai facendo da balia?»
«No, è che mia sorella mi sta… Aspetta… No… Ci sto parlando io! Ahi… Giulia!»
Un tonfo sordo.
«Aleksander?»
Sorrido. «Giulia, gli hai dato uno schiaffo?»
«No, un pugno. Ho bisogno di te.»
«Cos’hai combinato?»
«Io non riesco a capirvi. Lo devo o non lo devo richiamare Will? Nicolas dice che si aspetta una telefonata dopo ieri sera, ma io con queste cose sono negata. Sono stata bene, bla bla bla... Ora non si aspetterà che inondi di messaggi la sua segreteria, vero? No, perché non sono il tipo. Ho una bambina e ben altro a cui pensare.»
No, decisamente Giulia non è il tipo, semplicemente non è una donna, è un maschiaccio di un metro e sessanta con un destro micidiale. È per questo che andiamo d’accordo: è diretta, come me.
Cosa pensavate che non avessi amici? Pochi, ma ne ho. Voi quanti ne avete? E non barate, non parlo dell’elenco su Facebook. Perché di elenco si tratta. Nomi e nomi di persone che fondamentalmente non conoscete, ma che unite alla ciurma solo per fare numero. O sbirciare sulle loro pagine.
Alcuni si divertono a spiattellare la loro vita privata con orgoglio. Ma siamo in un paese democratico, giusto? Siamo liberi?
Io dico a volte, altre no e proprio chi sa cosa vuol dire sentirsi in trappola, soffocare, modificare la natura, il carattere o peggio il modo di pensare, sa dare un valore a questa parola.
Mi piace la riservatezza, per me non ha prezzo. Ad esempio: vi ho parlato del mio lavoro? No? Appunto!
«Ma… Aleksander? Mi stai ascoltando?»
«No» rispondo a Giulia, mentre mi fermo di fronte al cancello di casa mia.
“Perché non entri?”, mi domanderete. Ma è proprio su questo punto che sto riflettendo. Perché è una di quelle situazioni in cui so perfettamente cosa succederà se lo facessi.
E non perché sono un indovino.
Voi non potete vederlo ma l’ingresso della villa, il mio ingresso - dove mi sono preoccupato di fare istallare telecamere di sorveglianza di ultima generazione - è completamente aperto alla mercé di tutti.
Ora, io non sono fissato sul controllo. No, mi correggo: posso sembrare fissato sul controllo.
Perché voglio essere padrone di casa mia, delle mie cose, dei miei pochi ricordi. In ragione di questo tutti possiamo sembrare affetti da un disturbo ossessivo - compulsivo di personalità, come mia zia. Ma vedete quando sono a Como devo essere maniacale se voglio anche solo… come dire… respirare!
Vi ricordate cosa vi ho detto sulle serate di beneficenza? Tenetelo a mente, perché sto osservando il furgone di un catering parcheggiato nel mio cortile. E questo mi fa pensare solo a una cosa: hanno scelto la location per la prossima serata.
Ho poche regole, semplici, chiare, facili da seguire. Ve le riassumo: non voglio nessuno tra i piedi.
Una frase incomprensibile per mia zia.
«Aleksander?»
«Giulia, ti richiamo.»
«Afferrato. È appena sbarcato in territorio nemico» sento dire Giulia a Nicolas, ben conscia di cosa voglia dire.
È stato un viaggio, per me, iniziato quando avevo solo sette anni, anche se a quell’età mi è sembrato che la mia vita si fosse fermata. Adesso non mi definisco equilibrato, perché penso fondamentalmente di non esserlo stato mai, ma il poco controllo che ho raggiunto su me stesso devo lottare tutti i giorni per mantenerlo.
E non è così divertente.
I miei zii sono stati il primo grande scoglio da superare. Ero minorenne, con le mani letteralmente legate a due persone che mi hanno fatto respirare la loro rabbia, e unita alla mia si è trasformato in odio.
Quando si è fra due fuochi rischi di bruciare, ma se sei il terzo puoi solo far divampare un inferno. Ed è quello che ho fatto io.
Non sarò la persona migliore che potrete incontrare, ma non riuscirei a essere come Victor, il fratello di mio padre e marito - solo sulla carta - di Flora.
Non mi dimenticherò mai le sue parole sprezzanti verso mio padre. Mi facevano più male delle sue mani. Non mi dimenticherò mai lo sguardo assente di Flora mentre lasciava che quel vile mettesse le mani addosso a un bambino di nove anni solo perché aveva un pensiero suo.
Avrei dovuto essere un burattino, annuire a ogni ordine, comportarmi come se niente fosse.
Non credete, non hanno vinto loro ma nemmeno io. Dovrei sentirmi felice se fosse il contrario, invece ho raggiunto i miei venticinque anni e non ho più trovato un briciolo di felicità.
Non mi sto autocommiserando. La mia vita non è così importante. C’è di peggio al mondo. Un orrore continuo.
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